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KING: SHINING (1977), IL DELIRIO SIMBOLICO DI STEPHEN KING

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Inizia qui una mia retrospettiva su Stephen King. Leggo King da quando avevo 14 anni (ricordo il senso di potere e di sfida nell'aprire la prima pagina di It, durante un'estate in montagna, poi al mare, poi a casa, fino a che il libro non si è sfasciato in tre parti). Nell'ultima dozzina d'anni ho avuto dunque il piacere di vivere in diretta, da Fedele Lettore, una fase kighiana nuova, matura e variopinta. Quand'ero piccolo, invece, mi sono goduto le opere precedenti. Alcune erano palesemente superiori ad altre, ma il tempo passa e dopo aver letto quasi tutto di King ho sentito il bisogno di rileggere alcuni dei vecchi libri col famoso senno di poi.
La rilettura di Shining è stata una riscoperta, una rivelazione. Rientra appieno tra i suoi capolavori, presagendo a quelli della fase successiva (diciamo a partire da metà anni 80). Shining è quasi una mosca bianca per profondità, insieme a Pet Sematary, nella lista dei libri del primo periodo (che vede gli splendidi ma non altrettanti profondi La zona morta, Le notti di Salem Carrie e titoli tutt'altro che eccelsi come Cujo e L'Incendiaria, oltre a quelli scritti sotto lo pseudonimo di Bachman).
Leggendo Shining trapela tutto il respiro della visione di King, il respiro che dà a personaggi, eventi, luoghi, quindi al libro stesso che non sembra chiudersi affatto una volta letta l'ultima riga. Continua a respirare sulla mensola, come fanno - parafrasando lo stesso King - i libri migliori di sempre. Non c'è da stupirsi se Kubrick ne abbia voluto trarre un film. Lo sappiamo, a King non piace quel film e di solito i fan di Kubrick si lavano la bocca dal nome di Stephen King, ma è inutile negare l'evidenza: leggete il libro e vedrete quanto le differenze siano sottili e le somiglianze grandi(ose).
Siamo al terzo libro di King, anno 1977, e in due su tre King ha scelto uno scrittore come protagonista (e lo farà innumerevoli altre volte in futuro). Lo scrittore non è solo una figura in cui King riesce evidentemente a calarsi bene, ma rappresenta una personalità diversa dall'uomo comune, essendo “artista”: una mente più aperta, recettiva e catalizzatrice. Per dirla con Carlo Bordoni [1] la figura dello scrittore è quella dell'“unto da Dio” analogamente a quella dello sciamano nelle società primitive. Lo scrittore è in grado di vedere i veri motivi dietro le azioni umane, e questa superiorità dell'“artista” (o del custode della cultura) ha radici classiche.
Dall'altro lato, lo scrittore può essere vittima dell'ossessione creativa che cresce in lui come un tumore: è il caso di Jack Torrance. Shining può essere letto come metafora del travaglio della creazione, almeno in termini romantici (lo scrittore tutto ispirazione e pochi progetto, come fa notare ancora Bordoni, in opposizione per esempio allo scrittore “di mestiere” al centro di Misery).
Jack Torrance viene esplorato largamente attraverso i momenti della sua vita, i pensieri, le azioni e le idiosincrasie (ogni personaggio kinghiano ha qualche peculiarità, come l'uso di espressioni linguistiche peculiari). In questo processo King rende labile il confine tra l'interno del personaggio e l'esterno, più strettamente legato al luogo e ai fatti narrati.
Altrettanto si può dire per il figlio di Jack, Danny, dotato della chiaroveggenza (lo “shining” appunto, nel film tradotto come “luccicanza”) e della turbata moglie Wendy. Un punto per il libro che, nel maggior spazio a disposizione rispetto al film, narra la vita dei personaggi e fornisce la ragione a molte delle azioni che leggiamo poi, in particolare tutto il passato da alcolista di Jack, incluso l'episodio di violenza sul figlio. Mentre nel film Jack appare sin da subito un uomo squilibrato, nel libro si capisce che è (o è stato) un amorevole padre di famiglia, ma che sta cedendo sotto i colpi dei suoi tormenti.
Sì, perché Jack Torrance è una vittima ancor prima di essere il carnefice. Si potrebbe dire che viene fregato di brutto. Da chi? Per la trama "esterna", dalle forze malvage che popolano l'albergo, ma queste non fanno altro che esacerbare le sue debolezze, i suoi tormenti. Al livello zero, Shining è la storia di un uomo fallito le cui ambizioni mancate (ingigantite dall'alcolismo che ne è derivato) lo conducono alla follia durante l'ultimo tentativo che si concede, sia come padre che come scrittore, per rimettere in carreggiata la propria vita. Nel romanzo non è la follia, bensì l'alienazione, l'emarginazione e il fallimento a essere in Jack Torrance sin dalla prima riga ("Jack Torrance pensò: piccolo stronzo intrigante"). Pur essendo un essere umano, e forse proprio per questo, egli è tra le figure mostruose meglio riuscite di King; rappresenta un individuo dal quale la società ci ha sempre messi in guardia per salvaguardare sé stessa. [2]
Il richiamo alla figura del padre come qualcosa di negativo ricorre più volte nelle opere di King, derivazione della sua reale vita familiare (il padre di Stephen abbandonò moglie e figli). Sembra che King parli di sé stesso anche quando narra i tentativi di Jack di vendere racconti a riviste per uomini (era così che iniziavano molti scrittori, allora, King compreso) e quando parla del problema con la bottiglia (in cui è caduto pure King per molto tempo, per poi passare alla cocaina). Jack Torrance incarna tutte le paure delle responsabilità a cui un padre/artista è sottoposto, e la frustrazione di desiderare due vite che, a volte, appaiono inconciliabili. E chi è in grado di parlarne con una dovizia di vissuto così autentico se non lo Stephen King uomo dietro lo Stephen King scrittore?

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Veniamo al luogo dove si svolge la vicenda. L'Overlook Hotel è un luogo fisico con una conturbante storia passata, ma soprattutto un luogo mentale (a questo proposito Enrico Ghezzi parlava di geografie della mente). Bisogna premettere che il luogo e l'evocazione degli spazi hanno grande importanza nell'intera letteratura americana partendo da classici come Dickens e Lovecraft, passando per Kerouac e arrivando fino a King.
In Shining abbiamo l'inverno, la montagna e l'hotel, che generano isolamento e oppressione (e anche tristezza). Il ruolo dell'hotel e della sua aura sovrannaturale è suggerito ma non viene definito mai in modo troppo preciso. Si tratta di una presenza che respira attraverso i fatti di cui è causa scatenante. La casa come luogo dotato di una sorta di memoria degli eventi, specie quelli malvagi, e in grado di cambiare o reagire come se fosse dotata di una propria coscienza, è un elemento ricorrente nella narrativa fantastica/horror/weird (oltre agli Usher di Poe, si pensi alla Shirley Jackson di Hill House e al Jean Ray di Malpertuis), e così lo è anche in King (ci ha scritto pesino una miniserie per la tv, Rose Red, purtroppo non un granché). Neanche a dirlo, l'Overlook è la sua miglior interpretazione di questo concetto.
Il luogo è parte attiva della storia e consente all'autore di esplorare il rapporto che intercorre tra la psiche umana e l'ambiente esterno in cui è immersa, confondendo nuovamente le linee di demarcazione. Shining dà ampio spazio all'esplorazione dei vari ambienti dell'Overlook da parte dei protagonisti: emblematica la scena di Danny nella stanza 217, scelta da King per rappresentare i meccanismi dell'hotel nel suo complesso. Ma anche nell'episodio del nido di vespe che coinvolge Danny e Jack (episodio assente nel film, eppure simbolico e molto rilevante se consideriamo i risvolti che implica, l'incrinarsi ormai irreparabile della fiducia tra Jack e Danny/Wendy).
È evidente che il mondo di King è ricco di elementi fantastici (cioè della letteratura del fantastico): in primis i poteri sovrannaturali della mente. Leggendo con attenzione si nota che la luccicanza di Danny e del cuoco Hallorann è l'unico elemento al di fuori del reale che viene palesato fino all'ultima parte del romanzo. Fino a lì ogni visione sovrannaturale è trattata come, appunto, una visione, cioè qualcosa che potrebbe essere un semplice scherzo della mente di colui che vi assiste.
Solo alla fine King inserisce due scene che svelano la realtà infestata dell'Overlook. Primo, quando a Jack viene aperta la porta della cella; secondo, quando Hallorann viene attaccato dalle siepi-animali. Mentre la prima è un tocco di maestria, la seconda pare eccessiva rispetto al delicato equilibrio del resto del romanzo, una sorta di effetto speciale per nulla necessario. Rimane comunque il dubbio (almeno, a me è sorto) che persino questa tangibilità sia solamente il frutto dell'"amplificazione" operata dalla luccicanza di Danny e Hallorann, che di fatto piegherebbero la realtà a loro piacimento. (Curiosamente il sequel scritto da King nel 2013, Doctor Sleep, sembra legittimare questo dubbio.)
Ad ogni modo, chi sostiene che King abbia scritto del solito albergo infestato mentre Kubrick si sia mantenuto su un sofisticato livello di ambiguità, non è del tutto obiettivo. La scena della porta è ripresa dallo stesso Kubrick che ha giocato allo stesso modo: fino a lì, ha trattato le visioni come semplici visioni, ma con quella scena approva la presenza di fantasmi (e vedendola per immagini risulta anche molto più esplicativa che non leggendola nel romanzo). Kubrick ha capito il gioco di King e lo ha ripreso, evitando saggiamente la parentesi degli animali del giardino.
Che si scelga di credere ai suoi fantasmi, l'importanza dell'Overlook non è inferiore a quella degli umani, essendo sia il teatro, sia la proiezione, sia il catalizzatore della follia di Jack. Catalizzazione scatenata dal figlio Danny, il cui potere risveglia ed è risvegliato dall'hotel, in un circolo di energie.
Laddove Jack rappresenta la tenebra, Danny rappresenta la luce: ha la capacità di vedere risvolti nascosti della realtà, sia i terribili “spettri” dell'Overlook, sia i segreti dei suoi genitori, come i loro contraddittori sentimenti, un costante combattimento tra amore e rabbia, tenerezza e violenza. Essendo bambino non li comprende, perciò usa un suo doppio speculare (Tony) per spiegarli a se stesso ed esorcizzarli al contempo. Tony stesso lo intimidisce, ma lui è sotto il suo controllo, al contrario di Jack, che invece è un caleidoscopio di personalità che fanno a pugni per assumere il controllo del corpo del padre.
La conclusione di King pone fine all'Overlook: Jack ha fallito anche l'ultima delle sue responsabilità, la sua ultima occasione per dimostrare il suo valore. Tralasciando la caldaia, simbolo della sua personalità instabile [2], fa saltare per aria l'albergo e se stesso, e spazzando via la tormentata dualità che lo ha fatto sempre vivere in bilico. Anche l'hotel cessa di esistere, seppellendo il proprio tremendo passato. La fine di entrambi riporta l'equilibrio, o così si spera, a Danny e Wendy.
Shining non è un romanzo horror né di alcun genere preciso: è un'epopea umana, come i migliori libri che continuano a respirare una volta riposti sullo scaffale. All'interno della bibliografia kinghiana brilla come capolavoro insieme a qualche altro titolo come IT. Come terzo romanzo dell'universo kinghiano, invece, per gli elementi che lo compongono riesce a definire un'estetica, un canone, ancora meglio di quanto lo avessero fatto Carrie Le Notti di Salem, perché prende gli ingredienti migliori di entrambi (i tormenti umani da un lato, la mitologia fantastica dall'altro) e li mescola magnificamente.

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Note:
[1] Carlo Bordoni, Stephen King: la paura e l'orrore nella narrativa di genere (Liguori ed., 2002).
[2] Questi aspetti li fa notare Fabio Fusco nel suo articolo per la webzine Inside View (che in rete non trovo più).

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